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Cara maestra

Post pubblicato in spagnolo nel blog www.musikeon.net il 14 aprile 2017.

 

Ricordo ancora come se fosse ieri l’emozione di percorrere quel corridoio e, al termine trovare, settimana dopo settimana, quella stanza. Quindicenne, nel pieno delle tempeste emotive di quell’età, con una lista esageratamente lunga di cose che credi di NON volere dalla vita, pensando e dicendo ogni giorno frasi delle quali oggi non sai se ridere o piangere, quelle lezioni di pianoforte nel Liceo Musicale di Monza erano una piccola ma fondamentale certezza. Lì incontavo finalmente una guida musicale sicura, dopo degli inizi che era stati emozionanti ma francamente confusi. Ora ricevevo consigli che funzionavano, direttrici chiare, un lavoro paziente e ordinato, e non per la qualche giorno o alcuni mesi, ma per lunghi anni. E questi anni, queste certezze, avevano un nome: Emilia Crippa Stradella, l’unica vera maestra di pianoforte che io ebbi l’occasione di avere mai. Quella vitalità, quella voce inconfondibile che ti salutava sempre con un sorriso, quel tratto affabile e a volte rigoroso, in una donna non tanto anziana, allora, ma dal cui aspetto trasparivano l’umltà e l’austerità di coloro che vivono la docenza con una dedizione totale… tutto quello era un universo.

Dopo di lei arrivarono altri obiettivi e altre prospettive, ma non avrei mai più ritrovato quella sensazione di essere davanti ad un cammino chiaro e definito, e allo stesso tempo con la certezza di poterlo percorrere a modo mio. Non oso neppure immaginare quanto dovesse essere complicato avere me, sedicenne, come allievo. Io che volevo dare l’impressione di sapere già tutto avendo tanto, tanto da imparare, con un ego gigantesco ma sempre in cerca di me stesso. In quegli anni così complicati, lei sapeva sempre essere al suo posto. Riuscì a farmi lavorare a fondo le Invenzioni a due voci di Bach, l’Op. 740 di Czerny, il Gradus ad Parnassum, ma non frenò la mia voglia di affrontare gli Studi trascendentali, la Vallée d’Obermann, la Waldstein, la Quarta ballata, Jeux d’Eau o a quella piccola follia che è Rounds di Luciano Berio. Ha lavorato con me opere che non aveva mai insegnato a nessuno, e sempre aveva tanto da dire, diteggiature efficaci, consigli utilissimi, e sapeva convincerti che, per quanto grande fosse il desiderio di mangiarsi il mondo, non potevi fare il passo più lungo della gamba. Furono quelli degli anni emozionanti, difficili ma sempre intensi, in cui la musica finiva per essere il denominatore comune di tante esperienze… e lei era sempre lì. E poi aveva quella forma suprema di saggezza che è il fidarsi dei colleghi e contare su di loro. Mi accompagnava quando altri mi facevano lezione, annotando ogni cosa, e facendo loro domande sempre pertinenti. E volle sapere dove studiavo: venne a casa a vedere il pianoforte a coda che i miei genitori avevano appena ha comprato, e fu quella l’unica volta che la vidi suonare, un’esecuzione dello Studio op. 25 n° 1 che è ancora impressa nella mia memoria, con la sua mano piccola e le sue dita già scolpite dall’artrite, ma in grado di estrarre piani sonori che non avevo mai sentito così da vicino.

Il passare degli anni, gli studi con altri docenti più famosi, i viaggi e il vivere in un altro paese fecero sì che il suo ricordo, col tempo, si allontanasse. Ma presto mi trovai io stesso ad insegnare, e ad avere la prova di quanto sia difficile accompagnare un giovane musicista nella ricerca del proprio cammino; e questo mi ha portato ad apprezzare sempre di più quello che lei aveva fatto. Lo aveva fatto con me e con centinaia di allievi nel corso di più di sessant’anni di carriera, meritando appieno il Giovannino d’Oro che ricevette nel 2012, il riconoscimento più prestigioso della città in cui era sempre vissuta, Monza. In questi ultimi anni andai a trovarla varie volte, e mi sembrava sempre la stessa, sebbene si lamentasse del fatto che la salute non era più quella di una volta. Volli presentarle i miei figli, farle omaggio di una copia dei libri che stavo pubblicando, e l’ultimo concerto del nostro Tropos Ensemble, a Milano, David Ortolà ed io abbiamo voluto dedicarlo a lei. Sapevamo che non sarebbe potuta venire di persona, ma che cosa significava per me quel concerto glielo scrissi in una lettera e glielo dissi in quella che fu la nostra ultima conversazione telefonica.

Emilia Crippa Stradella, la maestra Crippa, l’unica vera maestra di pianoforte che ho avuto, ci ha lasciato qualche giorno fa. Un venerdì santo. Che coincidenza… Quasi una metafora, si direbbe. Se la Settimana Santa ci parla di morte e di resurrrezione, del trionfo dell’amore sulla caducità del tempo (indipendentemente dalla forma in cui ciascuno possa volere viverne il senso religioso), allora è davvero il momento ideale per riflettere sul senso ultimo dell’insegnamento, del vero insegnamento, quello che permea la nostra vita e ci fa diventare quelli che siamo. Perché insegnare è lasciare un’eredità, e far vivere il tuo esempio negli altri. E se è vero che è un’enorme responsabilità farsi carico dell’educazione di quelli che verranno dopo di noi, certo non lo è da meno racccogliere questo testimone e restare all’altezza degli esempi che hai avuto.

Dopo una vita intera dedicata alla docenza e ad una meravigliosa famiglia dalla quale tanta arte è germogliata in forme diverse, l’eredità di Emilia Stradella non andrà perduta: vive e vivrà in tutti noi, noi che abbiamo avuto la fortuna di averla vicino. Oggi io sento soprattutto il bisogno di dire: grazie, maestra. Ma so anche che da oggi in poi dovrò insegnare di più, e insegnare meglio. Più seriamente, più pazientemente, più umilmente. E che mai mi dimentichi di salutare con un sorriso sincero.